L'Archetipo della Madre Terra e le Esperienze Outdoor.

La Natura come Fattore Curativo.

L’ipotesi di fondo di questo lavoro è che un aiuto nel trattare alcune delle più diffuse patologie psichiche dei nostri tempi può venire dalla Natura, una natura che, oggi, è totalmente assente dalla nostra quotidianità. Non a caso si parla proprio di “deficit di natura”, e ne sono affetti molti nativi digitali, predisposti a sviluppare quella patologia dell’Attention Deficit Hyperactivity Disorder, ben nota come l’ADHD. Secondo un certo vertice di osservazione, questo disagio può collegarsi alla mancanza di contenimento, all’assenza del limite, all’inconsistenza della barriera, all’abbattimento dello steccato. Termini che rimandano alla figura paterna. Già Lacan, ricorda Massimo Recalcati (2011), parlava dell’evaporazione del padre. Un padre che, oggi, sta lasciando la scena familiare, spinto anche dall’ideologia imperante che diffonde egoismo, superficialità, mancanza di sacrificio, assenza di coraggio, incapacità di sopportare le frustrazioni e la fatica, narcisismo. Evaporazione del Padre, ossia dissoluzione delle figure autorevoli. Poiché il padre è il portatore della legge, a dissolversi è il rapporto dell’individuo con la Legge. Ne risulta un soggetto che si percepisce senza limiti.

Ma è nella Natura che si può facilmente fare esperienza di confine ed anche, a volte, del suo attraversamento, se adeguatamente preparati. Nella natura i sensi sopiti riacquistano la loro piena capacità, il silenzio consente di volgere uno sguardo Altrove, quell’altrove che è dentro di noi. Natura, a volte Padre, a volte Madre. Archetipo paterno ed archetipo materno, per dirla con Jung (1996). Grande Madre positiva ed il suo opposto, Grande Madre negativa. Una Madre che offre rifugio, ricovero, acqua, sostentamento; un Padre che pone limiti, come il freddo, o la salita faticosa, che è necessaria percorrere per arrivare in vetta alla montagna.

C’è poi il viaggio nella natura. Un qualcosa che comincia a realizzarsi quando siamo ancora al caldo, nel salotto della nostra casa. Molto tempo prima di compierli, un po’ di tempo fa, scrissi un “Diario di viaggio di due viaggi ancora da fare”.

 

 

Di seguito mi piace riportarne alcune frasi:

“Dopo aver viaggiato a lungo nell’Anima, sento ora la spinta di compiere due viaggi in luoghi reali. Non che l’altro mondo, quello dell’Inconscio, sia meno reale, ma il livello è sicuramente diverso.

Ho girovagato in lungo e in largo nel mio mondo psichico, ho incontrato tanti personaggi e molti animali, ed ancora scopro nuovi luoghi, diverse angolature, perturbanti traiettorie. E quando, a volte, calpesto dei vecchi sentieri, sono comunque diverso io, sì che l’esperienza è sempre nuova. Lupi, draghi, falchi, stupratori assassini, scimmioni, eroi e maledizioni da spezzare, boschi e acque agitate da fronteggiare. Stagni, sospettosamente calmi.

Una curvatura su me stesso durata anni, che mi ha portato in analisi prima e a diventare analista dopo.

Ora, alla vigilia dei miei cinquanta anni, come Ismaele sento il desiderio del mare, di dirigere la prua della mia esistenza verso il mare aperto. La destinazione è quella di due luoghi dell’Anima, gravidi di significati psichici personali: le Svalbard e le Highlands scozzesi.

In gioco è l’incontro con l’Altro: con l’archetipo materno e quello paterno.

La Madre Terra e il senso del limite, la sfida alla natura ostile, il contenimento, il muro. L’impastarmi da una parte con la terra, con la torba della Scozia, viscere che affondano nelle viscere e lo scontrarmi dall’altra con il ghiaccio artico, con il “No” delle terre estreme. Un “No”, spero, che mi permetta di maturare ancora, di crescere, di individuarmi”.

Ritengo che un certo tipo di viaggio possa essere anche una ricerca, a volte persino efficace, della cura per il proprio complesso patogeno originario.

Un giorno poi fui chiamato da una frase di Jung (1992): “L’andare errando è immagine dell’anelito incoercibile, del desiderio senza sosta che mai trova il suo oggetto, della ricerca della madre perduta.” Perduta…, o mai avuta.

“Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa – non importa quanto di preciso – denaro in tasca poco o niente, e nulla di speciale a trattenermi a terra, pensai di viaggiare un po’ per mare e di vedere la parte acquatica del mondo. È il mio modo di combattere la malinconia e di controllare la circolazione. Ogni volta che sento la bocca prendere una piega torva, e il calendario della mia anima è fermo a un novembre umido e piovigginoso […] e specialmente quando le paturnie prendono il sopravvento al punto che devo fare appello ai miei più forti principi morali per impedirmi di scendere in strada a scaraventare in terra il cappello del malcapitato di turno, so che è giunta l’ora di andare per mare appena possibile.”

È, questo, l’incipit del Moby Dick di Herman Melville (1994). “[…] sento la bocca prendere una piega torva, […] so che è giunta l’ora di andare per mare appena possibile.”

Di cosa stiamo parlando? Come ci riguarda questa esperienza? Cos’è questa inquietudine che attanaglia le viscere di Ismaele? Ismaele, Ulisse, Icaro, Reinhold Messner, Walter Bonatti, Maurizio Zanolla detto Manolo, Sergei Polunin, cosa hanno in comune? Cosa ha spinto Christopher McCandless a recarsi sempre più a nord, nelle terre estreme dell’Alaska, trovandovi poi la morte? Cos’è questo richiamo verso l’ignoto? Perché risuona in noi? Come risuona? Quale archetipo viene costellato? Quello dell’eroe? Del viaggiatore? Della Grande Madre? Della Terra Madre? Perché questo desiderio di uscire dalle Colonne d’Ercole, per andare verso il mare aperto? Perché scalare l’Everest? Quali limiti vogliamo, possiamo ed è saggio superare? È giusto farlo? Oppure è una questione di arroganza? Orsù, basta domande. Andiamo per ordine.

Partirei da una caverna, e dell’alzarsi in piedi, per andare oltre, uscire. Possiamo immaginare l’uomo primitivo, in realtà ogni uomo, al caldo nella grotta, al riparo, vicino al fuoco. Gli psicologi parlerebbero di “Comfort Zone”. Accade poi che un giorno l’uomo si alza, si avvicina all’uscita, e comincia a scrutare, come una sentinella l’orizzonte, a sostare sul limite, sulla soglia. Indeciso. La grotta “diventa”, allora, umida, scivolosa, oscura, in parte soffocante. La soglia, innanzitutto un luogo psichico. Un luogo di passaggio, da uno stato all’altro, tra il non più e il non ancora, tra l’al di qua e l’al di là, dall’interno verso l’esterno, dal conosciuto verso lo sconosciuto, dal sicuro all’incerto, tra il sogno e la realtà, tra il diurno e le tenebre. E’ lì che tutto diventa determinante, pericoloso e, quindi, significativo. L’inconscio stesso comincia con una soglia, ma la soglia è un varco, una ferita feritoia. Un rito di passaggio, un luogo da attraversare.

Quali pensieri attraversano quest’uomo, posto sul confine? Jack London, a proposito di Buck, parlò di un richiamo, Il richiamo della foresta: “… il richiamo della foresta prese ad echeggiare in modo più imperioso che mai. Buck fu preso dall’irrequietezza, ed era ossessionato dal pensiero di quel fratello selvaggio, di quella terra ridente oltre lo spartiacque, e della corsa fianco a fianco attraverso le grandi distese di boschi.”  Di questo trattasi. Di ascoltare una voce, che viene prima dall’interno e poi dall’esterno. Un pensiero introvertito, che poi diventa estrovertito. Un’intenzionalità che nasce dentro, come un Alien benevolo. Varcare il limite, in fondo, è un trascendere le ristrettezze del proprio io. Ma è, questo, un fare pericoloso: solo un io solido può oltrepassare le proprie ristrettezze, sperimentare le proprie capacità ed incapacità, i propri limiti. Dal lato opposto, rispetto ad un io stabile, ci sono le fragilità, che possono assumere condizioni borderline o psicotiche, dell’io vulnerabile.

Il limite, interessante concetto. Collegato, con un filo rosso, all’altro concetto: quello del borderline. Il nostro camminare, in fondo, non è un camminare sul crinale? Non siamo tutti, forse, un po’ borderline? Non rischiamo di cadere, di scivolare nell’abisso che ci accompagna, lungo la strada? Siamo come funamboli, in equilibrio sulla corda, o alpinisti, che anelano la fessura nella roccia. Specialmente noi psicoanalisti, che frequentiamo le terre marginali della malattia e della sofferenza, dobbiamo essere capaci di rimanere lassù, sulla corda, sulla parete. E’ una questione di capacità negativa, concetto che esamineremo tra poco. In perenne equilibrio, attenti a non cadere, a non farci risucchiare. Cadere, per un analista, è uno sprofondare nell’inferno dal quale si riemerge, per chi vi riesce, temprati dal fuoco della follia. Per chi vi riesce. Trattasi di un cadere nella propria area psicotica, sperando che si tratti di una leggera caduta.

Ma quale risposta possiamo dare all’interrogativo: “Esco dalla caverna? Mi addentro nel bosco? Oppure rimango, salvo ma prigioniero?” O, per evocare suggestioni bibliche, rimango schiavo del faraone, in Egitto, o libero, dietro a Mosè? Quegli uomini, tanto tempo fa, scelsero la libertà e, per quarant’anni, vagarono nel deserto. Poi, finalmente, giunsero alla Terra Promessa. Tutti, tranne uno: Mosè. Costui, dubitando di Dio, fu punito e vide solo da lontano la terra promessa. Rimase sul liminare, appunto.

Partire, ma in quale direzione? Verticale? Come fa l’alpinista. Oppure orizzontale? Come fa l’esploratore. O invece si è attratti dalle profondità? Come fa lo speleologo, l’archeologo, il palombaro, o il paziente che, accompagnato dal suo analista, scende nella propria intimità. E lì, forse, ha la possibilità di esperire il “numinoso”, e di uscirne trasformato. L’esergo de L’interpretazione dei sogni (1899) recita: “Si flectere nequeo superos, ad Acheronta movebo”. Se non posso piegare gli dei supremi, muoverò l’Acheronte. Anche il famoso verso virgiliano, ripreso da Freud, ci parla in fondo di un viaggio, di una discesa negli inferi, nel mare notturno. Per risalire, ancora una volta lo ripetiamo, diversi. Ma attenzione alla hybris, duramente punita dagli dei. Ulisse dovette legarsi all’albero, per non ascoltare la melodia delle sirene. Molti di noi, purtroppo, l’hanno divelto quell’albero, naufragando miseramente sugli scogli. Anche i costruttori della Torre di Babele, tanto arroganti da volersi elevare in alto, sempre più in alto, furono puniti. Così come Adamo ed Eva, colpevoli di voler assaporare il frutto della conoscenza del bene e del male e, in fondo, con il desiderio di elevarsi al rango di Creatore, non più creature. In aiuto viene il Salmista, che nel Salmo 131 così recita: “Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze”. Uomo saggio, questo.

Quale pulsione ci anima? Forse un desiderio, magari quello della “sublimazione”? Per Jung la “sublimazione” è una forma energetica, diversa da quella sessuale e aggressiva teorizzata da Freud. Si lega con la spinta individuativa, con il diventare ciò che si è. Per mezzo del processo d’individuazione, dice Jung, “ogni essere vivente diventa quello che era destinato a diventare fin dal principio” della sua esistenza (1992). O forse è questione di eros, di vitalità, che si contrappone a thanatos, l’ombra della morte. Partire è un vivere, restare un morire? Ma se guardi l’abisso, ci ricorda opportunatamente Nietzsche, l’abisso guarderà dentro di te. Il Superuomo, o meglio l’Oltreuomo, in fondo è colui che vuole espandere infinitamente la sua volontà di potenza. In altre parole c’è un desiderio incoercibile in ogni essere umano, quello di travalicare sé stesso. Siamo essere oltrepassanti. Per questo non si può rimanere a lungo nella grotta. Occorre uscire. Oscilliamo, come un pendolo, tra Apollo e Dioniso. Carotenuto (2010), a proposito di Nietzsche, scrive: “Nietzsche, che è stato il vero precursore della psicologia del profondo, sceglie … due grandi figure, Apollo e Dioniso. L’uno, Apollo, il dio della luce, della chiarezza, il dio che dà forma; l’altro, Dioniso, il dio delle baccanti, del caos, dell’inconscio (pag.11) […] “Apollo e Dioniso rappresentano un paradigma dell’esistenza, nel senso che l’uomo è continuamente preso da due polarità, quella del limite in cui tutto è chiaro ed i confini della personalità sono netti; e quella del non limite, in cui si è coinvolti nella dimensione dell’ebbrezza che ricongiunge all’unità originaria.”

Proviamo a fare il punto, per non perderci: grotta, tana, introversione, comfort che si trasforma in discomfort, e poi limite, soglia, estroversione, intenzionalità, tensione, attrazione per l’abisso, per l’ignoto, tra erranza e permanenza, sistole e diastole, chiusura e apertura, Apollo e Dioniso, desiderio di conoscere e di conoscersi, di provarsi, di diventare ciò che si è, tramite l’esperienza dell’attraversamento della soglia. Andare finalmente oltre. Fuori dalla grotta e, in qualche modo, fuori da sé stessi. Però osservando il limite, questa è una necessità salutare per l’uomo. In fondo è anche questa esperienza che ci aiuta a diventare uomini. Cozzare contro un ostacolo mette in crisi e, lo sappiamo, le crisi sono sempre dei momenti di crescita, lì il nostro spessore umano aumenta.

Concetto affascinante. Iniziamo con il definirlo, questo concetto non comune. Partiamo da un’immagine, quella del trapezista. C’è un momento nel quale, dopo aver lasciato un trapezio, non ha ancora preso l’altro. In questo preciso istante è senza appiglio, svetta nel vuoto, sotto si apre l’abisso. Ecco, sopportare quell’istante è possibile qualora si possieda una certa dose di capacità negativa, ossia quella capacità di permanere in uno stato di insicurezza, scivolosità, incertezza. Quella stessa capacità che occorre, in fondo, per giocare ai quattro cantoni. Non è facile lasciare il proprio cantone, correndo il rischio di rimanere in mezzo, senza base sicura. Il poeta John Keats (1817) introduce, in alcuni suoi versi, il concetto di cui stiamo parlando: “Mi riferisco alla capacità negativa, cioè quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare a un’agitata ricerca di fatti e ragioni.” Secondo Keats non è bene prendere il toro per le corna, quantomeno non subito. Il farlo è figlio del desiderio di sottomettere la realtà al proprio volere, è, innanzitutto, un modo per non pensare, per chiudere, per placare l’inquietudine, per uscire dall’incertezza. Detto diversamente, la capacità negativa è quella capacità di rimanere “esposti”. Chi ha esperienza di montagna può farsi aiutare da quella inquietante sensazione di essere esposti allo strapiombo, di svettare sull’abisso. Doveva averne, di questa capacità, Cristoforo Colombo, così come Manolo. Il primo seppe tenere la pressione, interna ed esterna, quella volta quando la Nina, la Pinta, e la Santa Maria vagavano, disorientate nell’oceano. L’equipaggio premeva, voleva tornare indietro, parlava di un maleficio. Colombo no, possiamo immaginarlo con il cannocchiale, sulla tolda, a scrutare fiducioso l’orizzonte. Sapeva permanere in quello stato. E così Manolo, il famoso free – climber che si arrampica senza corde di sicurezza, alla ricerca di una fessura. A volte occorre lasciare quel centimetro di sporgenza, per passare alla fenditura seguente, posta poco più in alto. C’è un momento nel quale l’atleta ha lasciato la presa, ma non ha ancora guadagnato l’appiglio. In questi momenti occorre anche saper fronteggiare la paura, il demone nero che si agita dentro di noi. Il daimon, la spinta a trovare il nuovo continente, o l’appiglio successivo, facilmente può trasformarsi in un demone. Demone dell’arroganza, della ricerca autistica, rifugio della mente, demone della paura. Un demone che va affrontato, come fece San Giorgio con il drago. Incontrare le nostre paure, questa è davvero una bella fortuna. Una frase sulla paura, di Paolo Borsellino, esemplifica un certo tipo di atteggiamento. Cito a memoria: “E’ normale che esista la paura in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti”.   E ancora: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.

La domanda, alla quale tenterò di rispondere ora, è la seguente: la Natura, in particolare la Wilderness, la Natura selvaggia, può essere un utile strumento curativo? Crediamo di sì.

Riflettendo sulla materia, sulla bellezza dei luoghi, sul perturbante, ho incontrato Heidegger (2002). Dei Holzwege, che sono dei sentieri nel bosco, Heidegger parla raccontando la sua personale esperienza ditrovarsi in un sentiero che, interrompendosi, svia”. E’ come se i sentieri interrotti suggerissero, a colui che cammina, nel punto in cui c’è l’interruzione: “ora non posso più aiutarti, tocca a te, vai, arrangiati da solo”. Heidegger stesso era un abituale frequentatore della Foresta Nera e, dunque, un percorritore di sentieri e boschi. Con questa metafora sembra intendere che il pensiero umano non deve proporsi una meta definitiva; esso non può che procedere sviando, errando. Perdendosi perfino. Il bosco fitto è inaccessibile, non si può procedere sul sentiero. Come fare? Cosa fare? Per associazione si agglutina nella mia mente il richiamo junghiano d’irretire l’unilateralità della coscienza, quella modalità di pensare unidirezionale che è rigida, autarchica, a favore di un atteggiamento aperto che tenga conto dei contenuti inconsci, che accetti la dissonanza. Per questo è necessario accogliere i sogni, le immagini, gli odori e i sapori che emergono dai nostri sotterranei, dalle nostre profondità psichiche, dall’Anima.

La Natura, inoltre, è silenzio. Del silenzio si può aver paura, paura di conoscersi meglio per esempio, lontani dal frastuono abituale. Il silenzio parla e noi dovremmo parlare con lui. A questo, spesso, preferiamo lo smartphone, la TV, internet, le chat. Sovraesposti al virtuale. Una notte nel bosco, rito di passaggio, crescita e trasformazione. Proviamo a immaginarci piccoli, soli, mentre cala la notte, davanti al bosco: “Sta calando il sole, l’oscurità incombe, sono solo. Davanti a me il bosco, nessuno a tenermi la mano. Rami che si allungano, minacciosi verso il cielo, quasi ad indicarmi qualcosa. Debbo addentrarmi. Ho solo otto anni. Ho paura.” E ancora: “E’ l’alba, il chiarore si propaga, il freddo è pungente, chiuso nel mio mantello aspetto. Aspetto che una mano mi porga una tazza di the fumante, che si chiuda nella mia.” (citazione dell’autore).

 

Deficit di natura, deficit di materia. Una materia che è diventata difficile persino da toccare. Quante volte le madri rimproverano i loro figli, pronti a sporcarsi le mani con la terra. Viaggio, avventura, solitudini, archetipo del viandante, archetipo dell’eroe. Un archetipo, un’immagine primordiale, comune a tutte le razze e a tutte le epoche. E poi i complessi. Diceva Jung che i complessi (1996) sono paragonabili a demoni che capricciosamente disturbano il nostro pensare e agire. Il complesso colora tutta la nostra vita. Possiamo ridurre la sua intensità, in maniera tale che i vari complessi possano essere diretti dal grande direttore di orchestra, il complesso dell’io, ma non possiamo eliminarli. Se abbiamo un Complesso Materno Negativo, probabilmente avremo problemi col dare e con l’avere, ci sentiremo non amati, sfiduciati, non accolti.

 

Per questo, anche per questo, la decisione del viaggio in Scozia, verso le highlands, alla ricerca di una Terra che sia anche, metaforicamente, una Madre Terra, per me che una madre non l’ho mai “sentita”. Perché la realtà che conta, questa davvero reale, è la realtà soggettiva. Sappiamo bene che la mappa non è il territorio. Terminerei questa parte con una poesia di Hermann Hesse (1998), nella quale si coglie il profondo rapporto che lega l’uomo, la sua Anima, all’Anima dei luoghi:

 

A volte

A volte, quando un uccello canta

o un vento passa tra le fronde

o un cane abbaia in una fattoria lontana,

devo stare a lungo in ascolto – raccolto.

 

La mia anima vola a ritroso

al di là di millenni immemorabili

quando l’uccello e il vento che stormisce

erano simili a me, miei fratelli.

 

La mia anima diventa un albero

e un animale e un tessuto di nuvole.

Tramutata e straniata torna indietro

e m’interroga. Come risponderle?

Due parole sul nome. Il Guardiano è colui che ha il carico di fare la guardia, di vigilare, di custodire cose persone o luoghi. E’ intento nell’atto del guardare, del proteggere, del difendere. Si narra, nelle Sacre Scritture, dell’esistenza di una pianta particolare: il Sicomoro. La sua particolarità consiste nel fatto che il frutto, per maturare, necessita di un’incisione. Da questa incisione, una ferita – feritoia, emerge un latte, amaro come il fiele. E’ questa operazione, poi, che rende il frutto dolce come il miele.

Questa metafora ben si adatta all’esperienza dell’essere umano, al suo rapporto con il dolore e con la sofferenza, con la conoscenza e la maturazione. Un profeta, il profeta Amos, era un incisore dei sicomori. Noi, “I Guardiani del Sicomoro”, vorremmo fare questo: attivare quella reazione “alchemica” che porta le persone a maturare, praticare quell’incisione. Maturare significa molte cose, significa esprimere il meglio di Sé, diventare ciò che si è, abbandonare il falso Sé, conoscersi, sperimentare un maggior grado di libertà, diventare capaci di sostenere i pesi della vita e … tanto altro. L’esperienza alchemica consiste nel trasformare il “vil metallo” in “oro”. In che modo? Facendo vivere ai ragazzi un’esperienza particolare, un Corso di Sopravvivenza, e tanto altro, in un contesto naturale selvaggio.

La particolarità della nostra proposta consiste nel fatto che si uniscono, alle conoscenze e alla pratica psicoanalitica, esperienze “forti”, da svolgersi all’aria aperta, guidate da persone che hanno fatto parte, o che fanno tuttora parte, dei reparti speciali dell’esercito. Ragazzi, Psicoterapeuti e Incursori. Offriamo un perCORSO di crescita. Non solo un corso outdoor, ma un’esperienza all’interno di un percorso psicologico, nell’ottica che l’uno possa amplificare l’altro.  Percorso che consiste nella presa in carico dei ragazzi, nella valutazione dei loro bisogni, nell’erogazione del corso, nella restituzione di gruppo e singola. Spesso, nelle sedute successive all’esperienza del campo, si riprendono i temi toccati all’aria aperta, le sensazioni, gli episodi e le emozioni vissute, come utili spunti riflessivi.

Il sicomoro è anche quell’albero sul quale, per vedere Gesù circondato dalla folla, salì Zaccheo, che era piccolo di statura. Rappresenta dunque, metaforicamente, quella possibilità di servirsi dell’Altro, inteso in senso lato, per andare oltre i propri limiti. L’idea è nata da una richiesta, molto diffusa, riscontrata nell’attività professionale: tanti genitori chiedono aiuto per la “gestione” dei propri figli, adolescenti “difficili”. Ci sono tantissime madri, e moltissimi padri, spaventati, disorientati, che non trovano i mezzi idonei per aiutarli. Il mestiere dei genitori nessuno lo insegna e, quando si presenta un problema serio, mancano le strutture idonee ad accoglierlo.

Aiuto per i genitori, aiuto per i figli. Per questo abbiamo previsto, in affiancamento ai Campi nella natura per i ragazzi, anche una Scuola per i genitori. Un altro problema, che si riscontra con gli adolescenti impegnativi, è la loro idiosincrasia verso ogni forma di psicoterapia. “Mica sono matto io”, è l’obiezione più frequente. I genitori, d’altro canto, non hanno l’autorità necessaria per persuaderli. Ciò comporta che molto spesso non è possibile fare nulla per loro. E’ importante allora poterli agganciare, con delle modalità attraenti. La proposta ha l’ardire di gettare un ponte verso quegli adolescenti che sono in difficoltà, “senza speranze e senza desideri”. Si vuole far vedere loro che non sono soli, in questa condizione, e che si può vivere con più leggerezza la vita.

Con il tempo abbiamo poi ravvisato la necessità di proporre dei campi per tutti, non solo per i ragazzi così detti “difficili”. D’altronde, a ben vedere, chi davvero non è “difficile”? Il fine più ampio è quello di conoscere sé stessi, divertirsi nella natura, maturare, acquisire fiducia migliorando l’autostima, utilizzare il campo come rito di passaggio, per apprendere a socializzare meglio, per superare i propri limiti e via dicendo. E’ stato visto anche che, se nelle “prime” classi si fa del teambuilding, gli episodi di bullismo calano drasticamente (Miletto ed al., 2010).

Vediamo alcuni aspetti dell’esperienza nella natura, tutti con un profondo significato simbolico.

  • Il rifugio, la sua costruzione, il ruolo della tana. Il mettersi comodi nelle situazioni scomode.
  • Il piatto caldo sotto la pioggia, da condividere con la compagnia dell’anello.
  • Il cerchio intorno al fuoco, momento topico nel quale far sgorgare le emozioni, i vissuti, i sentimenti.
  • Il “coppio”: si sta meglio quando non si è soli. C’è un momento nel quale, dopo una notte sotto l’acqua, al freddo, in condizioni di ipotermia, ci si spenge, il cervello va in pappa. In quei momenti l’aiuto dell’altro, per non lasciarsi andare, è fondamentale.
  • La verticalità: discesa in corda ed arrampicata. La fatica della salita. L’essere esposti, lo sporgersi, il fidarsi dell’altro.
  • Separarsi dal proprio smartphone: si può sopravvivere.
  • Il kit di sopravvivenza e la propria cassetta degli attrezzi.
  • Il campo base: regole, certezze, sicurezze.
  • Camminare, importanza del viaggio e della meta.
  • Sopravvivere, nel bosco come nella jungla metropolitana, è questione di creatività, capacità di adattamento, legami con gli altri …
  • Accendere un fuoco: calore, nascita, sentimento dello stare a casa. Cosa ci riscalda nella vita?
  • Quale bussola utilizzi nella vita?
  • Il rapporto con il cibo, l’aver fame. Di cosa si ha fame?
  • Nel bosco, di notte. E’ questa un’esperienza unica, irripetibile, in special modo se si è soli. D’altronde affrontare il bosco è necessario, in senso metaforico, per crescere e conquistare l’autonomia, liberandosi, attraverso il pericolo corso e superato, dalla tendenza regressiva a permanere nella casa, al caldo, protetti dai genitori.

Fatti questi che, con l’aiuto del terapeuta, diventano esperienza. Parole vuote che acquistano un senso. Si passa dal Laboratorium all’Oratorium, da un luogo nel quale accadono delle cose, nel campo, ad un altro luogo nel quale si riflette su ciò che è accaduto, la stanza di analisi. A distanza di mesi, nel mio studio, ancora si parla di quella reazione abnorme alla frustrazione che Marcello ha avuto per non aver saputo accendere il fuoco, operazione da fare con il solo aiuto dell’acciarino. Quella volta, nel campo con i figli, c’erano anche i genitori. Enrico, padre di Marcello, banalizzò il fatto, non riuscendo a cogliere fino in fondo la profonda sofferenza del figlio, sua estensione narcisistica. Coglierlo avrebbe significato dare accoglienza a quelle parti fallimentari di sé che invece non poteva albergare. Fu solo con l’aiuto dell’istruttore che Marcello riuscì a farlo, salvando quel minuscolo residuo di autostima che usciva ogni volta perdente dal confronto con il padre idealizzato, professionista di successo. Dal locus of control esterno al locus of control che, lentamente, viene interiorizzato. Oppure si racconta per l’ennesima volta quel momento quando, accettando la paura e fidandosi dell’altro, si lasciò andare nel vuoto discendendo la parete in corda doppia. Si ricorda il diverso ordine delle priorità

Stare nella natura, esposti agli eventi atmosferici, alla fame, alla paura, al disagio, alla fatica, tutto ciò è altamente formativo, strutturante, capace di dare spessore, riattiva o addirittura attiva una intelligenza non razionale ma istintuale, fisica, emotiva. Hurlimann, (2017) partendo da un breve virgolettato presente nei diari di Nietzsche – “ho dimenticato l’ombrello” – ha scritto un interessante libro nel quale distingue l’uomo civilizzato, che tende a controllare, a vivere al riparo, addomesticato e timoroso, dall’uomo non civilizzato. L’uno con l’ombrello, l’altro no. Una frase recita: “se un nuvolone temporalesco si rovescia su di lui, si avvolge nel suo mantello e se ne va a passo lento sotto il temporale.” Poche parole che esprimono libertà, leggerezza, contatto con il mondo, grounding. Esperienze che, immersi nella natura, accadono con un sapore unico.

L’esperienza umana è segnata dall’esperienza del limite e dalla propria attitudine di fronte ad esso: attraversamento o stazionamento? Come tutte le polarità, anche queste funzionano se c’è l’opposto. Per oltrepassare il confine occorre tuttavia essere in possesso di una capacità, la capacità negativa, e dell’altra capacità, ad essa collegata, la capacità di adattamento. La Natura ci offre la possibilità di cimentarci con questi due aspetti, ci dà modo di svilupparle, può aiutarci a far crescere il nostro spessore umano. Soprattutto se c’è l’aiuto di una guida, di un maestro. Di fronte alla Natura siamo deboli, creature e non creatori, impotenti, percepiamo il senso della nostra nullità. Questo ci ricontestualizza e, spesso, è di aiuto nel passare da una posizione maniacale a quella depressiva, come direbbe la Klein. Il momento depressivo è il momento della verità, per ciascuno di noi. Un momento conoscitivo, di incubazione, di riflessione, di curvatura sulla nostra interiorità, poi si genererà una scintilla. Un processo che si dipana, tagliandolo con l’accetta, nelle fasi susseguenti della maniacalità e dell’eccitazione, della depressione e dello scoramento, della crisi ed infine della ricerca della soluzione creativa.

In fondo la Natura, quasi come l’analisi, può minare le nostre certezze razionali, l’unilateralità della coscienza, la nostra rigidità, la corazza caratteriale, in nome del dubbio, della difficoltà, della paura, dei limiti che sperimentiamo nell’affrontarla. Forse, addirittura, è premessa di quel lavoro psicologico che chiamiamo integrazione dell’inconscio. La Natura selvaggia, in qualche modo, può rimandare anche all’inconscio, al tentativo d’integrare parti di esso. Le certezze dell’Io si sgretolano, si creano delle fenditure e, di lì, filtra la luce. Consente di esperire il perturbante e di contemplare la bellezza. E sappiamo quanto abbiamo bisogno noi, abitanti delle periferie cittadine nonché “esistenziali”, d’incontrarci con il bello, con la bellezza naturale. Permette di sperimentare forme diverse d’intelligenza: corporea, creativa, emotiva, oltre che razionale e pratica. Ha un ruolo nobilitante, che eleva.

Spesso dobbiamo prendere l’ascia, per aprire una strada verso le profondità ghiacciate della nostra Anima, e lì portare un po’ di emozioni e calore umano. La Natura può essere di aiuto in questo. Mi piace concludere il presente lavoro con una frase, tratta dal film Run all night, che ha a che fare con l’Altro: “Dovunque andremo… quando passeremo quel confine…lo faremo insieme…io e te” L’ultimo confine, quello della morte e, speriamo, di un nuovo inizio.