Vorrei provare a dipingere alcuni modi di essere Padre, facendomi aiutare da quel capolavoro letterario che è la Sacra Bibbia.

Partiamo dall’inizio.

Dio disse: ”Sia la luce!”. E la luce fu. (Genesi 1, 3)

E’ questo uno dei primi versetti del Libro dei Libri. Il Verbo, il Logos, lo Spirito di Dio che aleggiava sulle acque, il Principio Paterno, pone in essere il primo atto di differenziazione. Attività squisitamente paterna quella della separazione – differenziazione, alla quale si deve la nascita della coscienza. Separazione, frustrazione, processo simbolico, accesso alla dimensione adulta.

Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò.” (Genesi 12, 1)

Esci dall’utero, dalla tana nella quale ti trovi, inizia il tuo percorso trasformativo. Un Padre che chiede al figlio di uscire dalla casa dei Padri, dalla propria Patria, per farsi straniero nel mondo.

così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. (Genesi 22, 9s)

Il suo unico figlio, avuto in vecchiaia da una moglie sterile. Abramo ha ascoltato il Padre e ha ubbidito al Suo “progetto”. Quanti padri riuscirebbero a fare questo? E che tipo di insegnamento avrà tratto Isacco? C’è un canto molto bello, in uso presso le Comunità Neocatecumenali, che s’intitola Akedà e vede l’episodio con gli occhi del figlio. Così recita:

Era ancora notte quando Abramo si disponeva a sacrificare suo figlio; si guardavano i due negli occhi, quando dice Isacco: “Akedà, akedà, akedà, akedà. Legami, legami forte, padre mio, che io non resista! Legami, legami forte, padre mio, non sia che per paura io resista, e non sia valido il tuo sacrificio, e tutti e due siamo rifiutati!”

Che rapporto, stupendo e terribile allo stesso tempo, tra questo Padre e questo figlio. Un figlio che accetta, fidando nel Padre, di essere immolato, senza ribellarsi.

Isacco prediligeva Esaù, perchè la cacciagione era di suo gusto, mentre Rebecca prediligeva Giacobbe. (Genesi 25, 28)

I figli non sono tutti uguali, né lo è la nostra predisposizione nei loro confronti, è nell’ordine delle cose.

Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”. Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!” (Genesi 32, 25-29)

Questa scena può diventare l’immagine di tutti i combattimenti: che siano spirituali o che non lo siano, con l’alterità, con l’Altro, con il Maestro, con il proprio Padre. Immagine quindi di ogni incontro significativo e, come tale, trasformativo, capace di cambiare la propria vita. Immagine, pertanto, anche dell’incontro analitico. Giacobbe porterà i segni del combattimento: rimarrà zoppo ed il suo nome diventerà Israele. Nella tradizione ebraica, il cambiamento del nome corrisponde al cambiamento profondo di se stessi.

Incontriamo ora un’altra figura biblica, quella di Giobbe, che ci dà la possibilità di parlare dei limiti.

Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine: “Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando erompeva uscendo dal seno materno, quando lo circondavo di nubi per veste e per fasce di caligine folta? Poi gli ho fissato un limite e gli ho messo chiavistello e porte e ho detto: Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde.” (Giobbe 38, 1.8-11)

Riconosciti creatura, non Creatore, ricordati che i limiti è il Padre che li fissa. Questo è, credo, il senso dei versetti appena citati.

Ed il non ancora Papa, Cardinale Joseph Ratzinger, a proposito del Libro di Giobbe:

La risposta di Dio a Giobbe non serve a spiegare, bensì soltanto a correggere la nostra illusione di poter giudicare tutto e di poter sentenziare su tutto, e a ricordarci dei nostri limiti. Essa esorta i fedeli a credere al mistero divino nella sua incomprensibilità.

Un discorso fuori moda questo, che condanna il relativismo e che c’invita a lasciare l’onnipotenza infantile, per entrare nel mondo degli adulti.

A proposito di fanciulli senza limiti, come non ricordare Icaro. A costui il padre, Dedalo, raccomanda di non volare troppo in alto, né troppo in basso, con quelle ali costruite con penne e cera. Se voli troppo in basso, le penne potrebbero essere inumidite dal mare; se voli troppo in alto il sole potrebbe scioglierle. In altre parole: non diventare preda delle bassezze, e non permettere alle fantasie onnipotenti di crescere a dismisura. Rimarranno del figlio solo delle penne sparse, galleggianti sul mare.

Sempre a proposito di limiti, regole, norme:

Dio allora pronunciò tutte queste parole:

Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me.” (Esodo 20, 1-3)

E’ l’inizio del decalogo: Mosè scese dal monte portando le Tavole della Legge. E’ interessante notare che, i Padri della Chiesa, parlano anche di Tavole della Vita: segui questi comandamenti, ed avrai la Vita Eterna. Non solo, avrai anche una “good life”, direbbe Carl Rogers, qui e ora.

I limiti, i confini, lo steccato, il “questo non si puo’ fare”, servono ai figli per non sbandare, per avere un riferimento, magari contro il quale lottare. Altrimenti perdono la bussola e vagano intorpiditi, prede dei vari Lucignolo e Mangiafuoco.

C’è poi il momento della prova:

Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. (Deuteronomio 8, 2s)

Non si giunge alla Terra Promessa se, prima, non si attraversa il deserto. Per arrivare all’età adulta, occorre sperimentare che la terra è anche arida ed arsa, senz’acqua, che spesso si è soli. E’ vero, il Padre deve vigilare e sostenere nel momento del bisogno, forse è questo il significato della manna, ma deve farlo da lontano, di nascosto, o la maturazione, se non si consente l’esperienza, non avverrà.

Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita” (Deuteronomio 21, 18s)

Il consiglio degli anziani appartiene all’antichità, così come la famiglia patriarcale. Molti nuclei familiari, oggi, sono composti da madre e figlio. Chi esercita in questi casi l’autorità? Chi può far sentire un peso analogo a quello del consiglio degli anziani?

Ma il giusto atteggiamento, del Padre verso i figli, è anche il seguente:

Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. (Deuteronomio 32, 10s)

E la tenerezza si coglie anche nel brano, Osea 11, 1-11, che parla dell’amore del Padre per il suo popolo, per i suoi figli. Di seguito riporto un pezzettino del canto, in uso presso le Comunità Neocatecumenali, tratto da questo passo biblico:

Quando Israele era un bimbo io l’amai e dall’Egitto come un figlio lo chiamai, ma più lo chiamavo, più si allontanava da me. E non capiva che avevo cura di lui: Israel, Israel. Ad Efraim io insegnavo a camminare, li conducevo con legami di bontà, ero per loro come chi porta un bimbo alle guance.

L’Esperienza e la Sapienza sono difficili da trasmettere, non si trovano uditori. Appare quindi sensata l’esortazione che riportata è nei Proverbi:

Figlio mio, osserva il comando di tuo padre, non disprezzare l’insegnamento di tua madre. Fissali sempre nel tuo cuore, appendili al collo. Quando cammini ti guideranno, quando riposi veglieranno su di te, quando ti desti ti parleranno; poiché il comando è una lampada e l’insegnamento una luce e un sentiero di vita le correzioni della disciplina (Proverbi 6, 20-23)

Ci sono poi anche dei sorprendenti suggerimenti pratici:

Va dalla formica, o pigro, guarda le sue abitudini e diventa saggio. Essa non ha né capo né sorvegliante, né padrone, eppure d’estate si provvede il vitto, al tempo della mietitura accumula il cibo. Fino a quando, pigro, te ne starai a dormire? Quando ti scuoterai dal sonno? Un po’ dormire, un po’ sonnecchiare, un po’ incrociare le braccia per riposare e intanto giunge a te la miseria, come un vagabondo, e l’indigenza, come un mendicante. (Proverbi 6, 6-11)

Suggerimenti che si possono utilizzare, leggendoli ai figli piccoli.

E non far passare il tempo, sperando che le cose si aggiustino da sole:

Hai figli? Educali e sottomettili fin dalla giovinezza. (Siracide 7, 23)

E sull’educazione:

Un cavallo non domato diventa restio, un figlio lasciato a se stesso diventa sventato. Coccola il figlio ed egli ti incuterà spavento, scherza con lui, ti procurerà dispiaceri. Non concedergli libertà in gioventù, non prendere alla leggera i suoi difetti. Educa tuo figlio e prenditi cura di lui, così non dovrai affrontare la sua insolenza. (Siracide 29, 8s; 11; 13)

C’è poi la parabola dei talenti, che insegna a pretendere dai propri figli in maniera proporzionata alle loro capacità, non tenendo conto delle nostre proiezioni.

E quella del figliol prodigo, che ci mostra a prima vista un padre ingiusto e debole, che fa uccidere il vitello grasso per festeggiare il ritorno del figlio stolto. Costui, dopo aver dilapidato la sua eredità, pretesa in anticipo, finisce i suoi averi e non può far altro che tornare. Il maggiore, rimasto a casa a lavorare, mostra un volto inclemente: pretende giustizia. E l’accoglienza paterna, senza condizioni, sembra diseducativa nei confronti di chi torna, ma anche verso chi è rimasto. In realtà trattasi di amore incondizionato, di un padre che non chiede ma che dà, un padre che sa rigenerare i figli con la misericordia, quando questi si perdono nell’egoismo tipico dell’età. Al minore dà quell’accoglienza che fa crescere, al maggiore quella verità su di sé che fa, anch’essa, crescere. Ma si può essere compassionevoli soltanto se si considerano i figli come non propri. In questo caso non ci si sente traditi quando non corrispondono al nostro ideale.

Un po’ quello che dice Gibran, nei celeberrimi versi:

I vostri figli non sono figli vostri. Sono figli e figlie della sete che la vita ha di se stessa. …. Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive, sono scoccati in avanti.

Poi c’è il:

E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore. (Efesini 6, 4)

Senza mollare però. Vorrei ricordare le parole di Karol Wojtyla, riportate dalla Vinerba. Hanno a che fare con l’invito fatto al padre di non mollare la lotta, per il bene del figlio, e anche con l’invito al figlio di portare pazienza:

Non è forse vero che nella parola padre c’è posto anche per la paura? Non sarò mai solo bonaccia, ma anche tempesta. Né sarò solo dolcezza – vi mescolerò l’amaro. E per quanto mi sforzi di essere trasparente, sarò anche enigma. E non sempre troverai riposo; a volte per causa mia ti stancherai, figlia mia …. (Wojtyla K., Raggi di paternità)

Stiamo per terminare. Come non riflettere, allora, sul:

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Matteo 27, 46).

Epilogo amaro, stoltezza per i pagani, follia della Croce, per alcuni prova della non esistenza di Dio.

In realtà preferisco l’interpretazione artistica, data da Mel Gibson nel film The Passion. Una delle scene finali, prima della Resurrezione, mostra la Terra vista da Dio. Dio, Padre, assiste all’uccisione del Figlio, non la impedisce: la Storia deve compiersi, ma soffre con Lui. E piange. Si vede una lacrima precipitare dal cielo sulla terra e sconquassarla. Non interviene, permette la sofferenza del Cristo, ma non sta in un altrove, è lì, con Lui.

Ecco, forse è questo il comportamento da tenere con i figli. Non serve e non aiuta proteggerli sotto una campana di vetro, che li isola dalla vita. E’ giusto invece consentire alla sofferenza di attraversarli, permettergli di guardarla negli occhi. Soffrendo lì, accanto a loro, con loro. Un compito paterno, dunque, che non possiamo chiedere alla Madre, è sopra le sue forze, fin troppo contro la sua natura. Qui dovremmo spendere due parole sulle conseguenze dei divorzi, per la prole. Non dimentichiamoci che la Croce, la sofferenza, è necessaria per avviare il processo di trasformazione. Deve passare per la Croce, Cristo, se vuole arrivare alla rinascita, alla Risurrezione. Solo così può incontrare il proprio Selbst. E poi è uno sforzo senza senso quello di evitare il dolore, un po’ come quello di Sisifo, tanto la vecchiaia, la malattia e la morte hanno a che fare con ciascuno di noi.

Anche Jung ebbe a dire qualcosa del genere. In realtà parlava dei pazienti, ma le seguenti parole ben si adattano ai figli:

Se non avesse osato, se non avesse rischiato, la vita sarebbe forse stata privata di un’esperienza della massima importanza. Non rischiando mai la propria vita, non l’avrebbe mai conquistata.